Sono noti i dati relativi alla libertà di stampa nel nostro paese. Nell’annuale classifica stilata da Reporters Sans frontieres l’Italia è collocata al 77 posto su 180 nazioni, dopo Armenia, Nicaragua e Moldavia.
Chiediamoci perché, partendo da un esempio concreto.
Una rivista è soggetta a costi di produzione che sono suddivisi in pagamento del corrispettivo dovuto a chi svolge mansioni giornalistiche e di “confezione” del prodotto e costi di distribuzione. Per i primi esistono i contratti nazionali, più o meno equi, a seconda di come l’editore intende applicare le norme vigenti a salvaguardia dei propri impiegati e collaboratori.
Senza entrare nel dettaglio e a titolo di puro parametro di riferimento possiamo dire che una rivista con tre redattori, il direttore, la segretaria e un ufficio amministrativo, deve fare fronte mensilmente a circa 25.000 euro solo per il personale.
A questo bisogna aggiungere il costo degli uffici e delle apparecchiature necessarie a operare (computer, telefoni, dispositivi elettronici di vario genere) che stimiamo in circa 5.000 euro. E siamo a 30.000 euro al mese.
Poniamo che la stampa di un mensile diffuso in 30.000 copie abbia un costo di circa 10.000 euro (in realtà è una quotazione puramente ipotetica poiché le variabili, a partire dal formato, dalla carta, dal colore, etc., sono molte e una stima oggettiva non è possibile), di qui l’investimento per produrre il nostro ipotetico periodico lievita a 40.000 euro al mese.
A conti fatti dunque, una rivista delle suddette caratteristiche costerebbe 1,3 euro a copia.
Il reso, ovvero le copie invendute, per un mensile nel nostro paese si assesta nella migliore delle ipotesi al 50 per cento. Ma, mano sul fuoco, è davvero un’ipotesi idilliaca (si vedano i dati di rivistastudio sui quotidiani). Ciò significa che su 30.000 copie stampate, solo 15.000 generano profitto. Tralasciando i costi di macero ed altre gabelle a cui l’editore deve fare fronte, il dovuto per la produzione delle copie che saranno realmente vendute sale così a 2,6 euro cadauna.
Se il prezzo di copertina è fissato per esempio a 6 euro, vendendo 15.000 copie la casa editrice incassa 51.000 euro. Da questi bisogna poi sottrarre il 30 per cento dovuto al distributore, il che fa crollare le entrate effettive a 35.700 euro: 4.300 euro in meno dell’investimento effettuato.
Una perdita a cui l’azienda fa fronte con la pubblicità che così diventa vitale per la sopravvivenza della testata. E meno sono le vendite in edicola (come in generale effettivamente è), più è necessario il supporto di privati. Viceversa più la rivista diventa un catalogo a servizio delle aziende meno copie vende in edicola, poiché se i contenuti non ci sono il giornale non viene letto.
E come può una rivista fare informazione e se occorre denuncia, se i suoi finanziatori sono aziende che acquisiscono in questo modo lo status di “intoccabili”?
Il giornalismo piegato alle logiche del mercato, privo di referenti reali (lettori) diventa virtuale e non può essere considerato al servizio dell’informazione libera. Ecco perché in Italia, paese di logiche lobbistiche e di lettori a dir poco “deboli”, la stampa, tranne rarissime eccezioni, ha ormai intonato il canto del cigno. Muoiono i giornali e prendono il passo altre forme, più immediate e dinamiche (database di indirizzi email, profili personali condivisi, social network, etc.), per veicolare il messaggio promozionale.
Perisce l’informazione tradizionale dietro l’illusione di forme di informazione personalizzabili e su misura, si genera il vuoto culturale, trionfa l’advertising.
Lettori di tutta Italia, pretendete contenuti!